E così si chiude un'era. Luigi di Maio si è dimesso da capo politico del Movimento 5 Stelle. La reggenza è stata affidata a Vito Crimi fino agli stati generali del partito. A freddo, e dopo qualche giorno non indifferente, visto le elezioni regionali di domenica in Emilia-Romagna e Calabria, si può tentare una riflessione.
Di Maio è stato certamente il leader che ha portato i pentastellati al successo delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, che ha fatto registrare oltre il 32% dei consensi per il M5s. Il Movimento stava già crescendo prima, spinto sulle ali dell'entusiasmo e della protesta contro la vecchia classe politica e dopo le consultazioni con il presidente Mattarella, lui, che avrebbe voluto un governo interamente giallo, si è ritrovato con una casacca gialloverde (o gialloblu). All'inizio era quasi un idillio con Salvini: i due, non si risparmiavano complimenti reciproci. Poi si è rotto qualcosa, lo sappiamo, ad agosto. Con la crisi di governo, Luigino o Giggino, come alcuni lo chiamano, ho ingoiato un rospo più amaro: l'alleanza con il Partito Democratico. A detta di molti osservatori, si trovava meglio con Salvini. Ma come al solito, i sondaggi la fanno da padrone, e condizionano se non addirittura manovrano le scelte (purtroppo spesso a breve termine) dei politici. Il Movimento era già in grave crisi di consenso e non avrebbe apprezzato le elezioni. Oltre al fatto che restavano molti dossier da affrontare a loro dire. Nel frattempo, i pentastellati continuavano a mostrare la loro debolezza alle regionali: non hanno mai governato una regione sebbene abbiano preso comuni come Roma e Torino. Il travasamento di voti dai grillini (perché è sempre Grillo che da "garante" è la vera anima del partito) verso destra e verso sinistra è continuato inesorabile (già, perché un elettorato composito come quello del M5s ha sensibilità diverse). Forse per l'istituzionalizzazione del M5s, forse perché governare scontenta sempre qualcuno, forse perché su molti temi hanno dovuto ritrattare. Su molti altri, va riconosciuto, l'obiettivo è stato raggiunto.
Fino ad oggi. Di Maio si è dimesso prima delle regionali che sono state una mazzata: 7,35% in Calabria e 4,7% in Emilia-Romagna. In Calabria colpisce come il numero di redditi di cittadinanza sia stato congruente con il numero di elettori. Perché Di Maio si è dimesso prima delle elezioni? In ogni caso, la sconfitta era già pressoché certa, quindi farlo prima o dopo, non sarebbe forse cambiato. Tante sono state le critiche rivoltegli in questi anni, molte anche sul personale e sul curriculum. Ma, come ha avuto a dire durante le sue dimissioni, tanti sono stati anche quelli che gli hanno remato contro dall'interno. L'elettorato grillino è spaccato sulle sue responsabilità: molti lo considerano responsabile della caduta del Movimento, altri dicono che non avrebbe dovuto dimettersi. Ma è così che funziona: nel calcio, quando una squadra crolla in classifica, che le responsabilità siano dell'allenatore o dei giocatori, è l'allenatore che paga. E le dimissioni sono fisiologiche. Il giudizio sulla sua leadership è a discrezione di ognuno di noi, fatto di luci e ombre, come per ogni cosa.
Di Maio è l'uomo del 32% e insieme del 5%. Ma è anche un'altra cosa: l'uomo della cravatta. A suo dire (e anche a nostro), questo accessorio ha sempre significato rispetto per le istituzioni. Al tempio di Adriano di Roma, quel 24 gennaio, se l'è tolta, davanti a tutti, come segno significante la fine della sua permanenza al vertice del partito. E sempre a nostro dire, oltre a confermare che l'abito fa il monaco quando si ricopre una carica istituzionale, la cravatta non avrebbe dovuto toglierla. Perché Luigi di Maio è ancora il Ministro degli Esteri della Repubblica Italiana. Ed è curioso come il destino sia simbolico: proprio la Calabria, che era stata terra di consenso, ha dato l'ultima spallata a Di Maio; la Calabria, che ha una forma lunga e stretta. La forma, di una cravatta.
Stefano Guarrera