Fonte fotografia di copertina: https://www.agi.it/politica/news/2022-02-03/mattarella-discorso-giuramento-15479057/
17/05/2022
di Stefano Guarrera
Di solito non sono i governi a dover fare i conti con l’avvicendarsi di un Presidente della Repubblica con un altro. Ma questa volta è stato diverso. Sia perché il nome di Berlusconi è stato capace di far traballare i rapporti all’interno dell’esecutivo (e della maggioranza), sia soprattutto perché l’attuale primo ministro Draghi è stato un nome molto gradito per il Quirinale. A ciò si è aggiunto il sempre caldo e influente tema dell’elezione della prima donna Presidente della Repubblica.
È stato, come prevede la Costituzione, il Parlamento ad esprimersi. L'Assemblea aveva fino ad ora seguito i lavori del governo di più larghe intese mai esistito. Ma, per qualcuno, dopo la redazione del PNRR, l’organizzazione della campagna vaccinale e la stesura della Legge di Bilancio 2022, il compito dell’attuale governo avrebbe potuto concludersi, proprio in corrispondenza del voto per l’elezione del capo dello Stato. Giusto in tempo, per Draghi, di percorrere la strada che va da Palazzo Chigi al Palazzo del Quirinale. Tuttavia, il momento per l’ennesimo riassetto della politica italiana questa volta non è arrivato.
La politica non è stata in grado di (o non ha voluto) trovare un profilo condiviso e ha, per questo motivo, “ripiegato” sull’attuale Presidente Mattarella, conferendogli un secondo mandato. Troppo forte la tentazione di mantenere l’assetto di questo esecutivo di “unità nazionale” e di confermare il mandato a un capo dello Stato che si è dimostrato adatto al ruolo: che ha insomma accontentato (quasi) tutti.
I parlamentari contrari all’elezione di Draghi al Quirinale hanno assunto tale posizione per tre motivi:
per arrivare al termine della legislatura, vista la riduzione del numero di parlamentari e in modo da maturare anche determinate condizioni pensionistiche
per evitare quindi le elezioni, poiché quasi tutti i partiti si sentono deboli elettoralmente
per evitare una conseguente ricomposizione del governo, che avrebbe immobilizzato il potere esecutivo
Altri avrebbero voluto trovare, magari dentro lo stesso governo, una figura “traghettatrice”, che avrebbe guidato l’esecutivo fino alla scadenza: nel 2023. Cosa che per molti commentatori avrebbe comportato un “semi-presidenzialismo de facto”.
Questi ultimi hanno sollevato obiezioni pertinenti: come il fatto che Draghi sia un economista, non un costituzionalista, che sarebbe un profilo più adatto per il ruolo di prima carica dello Stato. O che lo stesso semi-presidenzialismo avrebbe ancor più commissariato una politica già ora debole.
Per altri osservatori la presenza dell’economista romano a Palazzo Chigi sarebbe stata un “capolavoro della politica” poiché ritenuto figura “di alto profilo”. Ma la politica, quella vera, è un’altra cosa. La politica dovrebbe essere in grado di trovare, all’interno delle istituzioni, gli uomini e le donne per guidare il paese. E lo hanno sperimentato Draghi e in precedenza Ciampi e Monti: ogni decreto, ogni legge, ogni manovra assume una direzione inevitabilmente politica.Governare significa prendere decisioni politiche.
Con il semi-presidenzialismo o “pseudo-presidenzialismo”, a cui prima si faceva riferimento, la governancedell’esecutivo sarebbe passata, di fatto, dalle mani del premier a quelle del capo dello Stato. Nella storia del nostro paese si sono succeduti Presidenti della Repubblica “interventisti” (come Cossiga o Scalfaro) ma Draghi al Quirinale avrebbe costituito un unicum senza precedenti, se non altro anche per la concomitante estrema debolezza del governo.
Il nostro ordinamento prevede, infatti, una figura di garanzia della Costituzione e una eminentemente politica: il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio dei ministri. Il presidenzialismo ad oggi non è previsto. E questa evenienza avrebbe costituito un precedente. È verosimile ritenere che Draghi avrebbe continuato a governare in sordina il Paese dal Palazzo del Quirinale.
Ma quali sono i motivi per un così vasto apprezzamento dell’ex direttore generale del Tesoro, stima che per qualcuno motivava la sua permanenza nel governo e per altri il suo passaggio alla prima carica dello Stato? E, domanda connessa: esiste davvero questa seducente volontà di farsi governare sempre più spesso dai tecnici?
Draghi è essenzialmente apprezzato dalla maggioranza dell’opinione pubblica, per aver mostrato fermezza e determinazione, da presidente della BCE, di fronte alla crisi del debito sovrano europeo, evitando, tra l'altro, le eventuali speculazioni che ne sarebbero derivate. In particolare, con il discorso del luglio 2012, si mostrava lontano da quelle logiche di austerità che avrebbero potuto mettere in difficoltà gli stati indebitati. Una volta terminato il suo mandato, (potremmo dire dal giorno dopo) i media, la politica e varie componenti della società, hanno iniziato ad invocare il suo nome, già ben voluto, per “risolvere i mali dell’Italia”. Alla fine, questo momento è arrivato.
La seduzione del commissariamento della politica, tramite la nomina di un tecnico a Palazzo Chigi, esiste e lo vediamo concretamente da 30 anni. Diventa più forte ancora se il tecnico è “disoccupato” e magari stimato, come nel caso dell’ex governatore della Banca d’Italia. Un tecnico non è interessato a sondaggi o elezioni: in senso assoluto può agire disinteressandosene, anche se poi è comunque sostenuto da una maggioranza politica, che quindi gli chiederà conto di quel che fa. E comunque anche un tecnico o un leader autoritario deve fare attenzione a non diventare troppo impopolare. Connesso a questo, c’è il fatto che la politica stessa può nascondersi dietro al tecnico, se e quando c’è da spendere o prelevare risorse al modo “lacrime e sangue”, come si dice.
Viviamo tempi in cui la classe politica è molto debole. E se a ciò si aggiunge l’attraversamento di una fase di estrema crisi, come può essere quella di una pandemia (che comporta aumento del debito pubblico, aumento della disoccupazione e licenziamenti) o di una guerra (e notiamo ora con il conflitto ucraino quanto Draghi sia solido al vertice), allora l’appello ad un “salvatore” diventa fin troppo seducente. Infatti, i profili tecnici sono quasi sempre intervenuti in periodi di gravi crisi.
Non essendo Draghi diventato presidente della Repubblica non sapremo mai quale sarebbe stata la sua condotta. Potremmo forse immaginare chi lo avrebbe voluto al Quirinale: per esempio, buona parte del mondo finanziario con cui ha avuto contatti in passato.
Mario Draghi, da poco nominato dal Capo dello Stato Presidente del Consiglio, annuncia la squadra di ministri.
Ma tutto ciò non si è verificato e quindi interessa quanto una qualsiasi speculazione politica. La riflessione da fare è casomai un’altra: in questa situazione, come ne esce la democrazia?
Appare ormai evidente che le elezioni stiano diventando quasi superflue. È un pessimo segnale. In più, la democrazia non è fatta solo dalle elezioni: è dibattito, discussione, dialogo che precede la deliberazione, la quale è solo il momento finale. E anche questa fase precedente al voto è inquinata: inquinata da fake news, argomenti ad personam, populismi e politici che parlano “alla pancia” dei cittadini .
La democrazia è inoltre sotto attacco anche per un altro motivo: le pressioni esercitate dalla finanza. Se il cittadino non è più interessato a giudicare il suo Stato, è più facile che questo compito se lo attribuiscano le agenzie di rating, con le loro valutazioni. Attenzione: questi sono indicatori importanti per un giudizio sulla salute di uno Stato, insieme allo spread, al livello del debito pubblico e al Pil. Le politiche delle nazioni di oggi, tuttavia, appaiono spesso “con le mani legate” a causa dei circoli viziosi che si creano dopo semplici dichiarazioni o dopo i giudizi delle agenzie. O, ancora, la morsa degli interessi sul debito “strangola” paesi come l’Italia, che si ritrovano, a causa di questi, sempre in disavanzo, anche effettuando politiche di bilancio prudenti.
Provocatoriamente si potrebbe dire che se la classe dirigente fosse eletta dai mercati internazionali si vedrebbero dei benefici: come i già citati interessi sul debito, che scenderebbero, in virtù della discesa degli spread. I mercati si “fiderebbero” di più. È proprio quello che accade quando un profilo tecnico governa un paese come l’Italia. I mercati lo considerano più rassicurante della oscillante, imprevedibile, frammentata e poco lungimirante politica italiana. Ma quale sarebbe il prezzo da pagare se i governi agissero solo in virtù dei mercati? Un prezzo salatissimo: avremmo politiche proposte non più ai cittadini, ma alle élite , se questo non accade già ora.
Ci troviamo allora di fronte ad un grave vulnus democratico e i cittadini sembrano non volersi salvare da soli. O meglio: questo dicono i dati delle cabine elettorali. Alle ultime elezioni amministrative è andato a votare un italiano su due. In alcune città si è anche andati sotto il 50%.
Osservando sondaggi o statistiche ma anche considerando la composizione delle manifestazioni e cortei (sul tema dell’ecologia o dei diritti civili o della pace), l’interesse dei giovani c’è, [SG6] e anche tanto. La sfiducia colpisce soprattutto le fasce di popolazione di mezza età, che attraversano o hanno attraversato la disoccupazione e sono stati testimoni di una fase politica poco credibile.
Serve andare a votare. E per andare a votare, serve riscoprire il valore della politica: progetto della realizzazione del bene comune. La formazione, l’onestà e l’apertura mentale sono requisiti su cui si dovrà formare la classe dirigente del futuro. Perché una politica che funziona è una politica senza tecnici. Ci sono molte istituzioni fondamentali che presidiano il buon funzionamento dello Stato, dove i tecnici possono compiere al meglio il loro mestiere: INPS, CDP, Corte Costituzionale, Corte dei Conti, Agenzia delle Entrate, Invitalia, le partecipate eccetera. Anche se, in linea con quanto detto prima, “tutto è politica”, come avrebbero detto i giovani del 1968. Anche le decisioni prese nelle istituzioni.
La democrazia funzionerà quando il dibattito pre-elettorale non sarà inquinato da polemiche politiche ma solo dai contenuti dei programmi, quando le elezioni saranno decisive. Perché non passi più l’idea che, anche se si va a votare, non cambia nulla. La democrazia funzionerà quando i governi non cadranno ogni anno (è la media di vita di un governo italiano) a causa di ricatti, polemiche personali o scandali. Quando i provvedimenti presi, specialmente in materia economica, non saranno solo sussidi o bonus. Perché, se dopo una pandemia il capitolo salute del PNRR è solo il sesto per risorse individuate, allora qualcuno non ha imparato la lezione.